Ariel Sharon, to be continued

Si è spento un grande nel bene e nel male, e come tutti i grandi ha lottato fino all’ultimo come ha sempre fatto, nei panni del politico e nella divisa da generale.  Un generale controverso, Bulldozer, eroe di guerra ma anche accusato di massacri. Colonizzatore ma anche accusato dai suoi sostenitori di essere troppo tenero e di trattare nella Strip. Un generale di destra e, naturalmente, senza mezze misure. Sempre nella sua divisa anche da ministro.

a1967dCombatté in quella che forse è il momento più controverso della questione araba. Il 1967, la guerra dei Sei Giorni (in arabo an-Naksah, «la sconfitta») quando reagendo alle aggressioni nei confini, Israele nella controffensiva invase e conquistò tutto: altopiano del Golan, Sinai, Gaza, Gerusalemme Est e West Bank.

Questa sconfitta, a parere di chi scrive, umiliò l’orgoglio nazionalistico arabo giunto al culmine con la leadership del rais Nasser e segnò la crisi di legittimità dell’ordinamento politico rivoluzionario. Dalla comunità internazionale poi Israele fu costretta a ritirarsi nei vecchi confini grazie alla risoluzione 242, così  famosa nel diritto internazionale. Guidò una divisione corazzata nel deserto del Sinai, un’operazione cruciale per la vittoria contro Egitto e Siria. Alla guerra avrebbe di fatto seguito la pace separata fra Israele ed Egitto, con la mediazione Usa e gli accordi di Camp David (1979). Poi la politica, nel 1973, Sharon venne eletto per la prima volta deputato. Fu tra i fondatori del nuovo partito conservatore.

Sharon fu anche l’architetto dell’operazione militare in Libano del 1982, “pace in Galilea”, innescata dalla presenza di armi alla frontiera e dalla protezione offerta da Beirut all’Olp di Yasser Arafat.

Sharon, per gli arabi il «macellaio», si dimise da ministro della Difesa dopo che una commissione israeliana lo ebbe giudicato indirettamente responsabile del mancato intervento a Sabra e Shatila. Ma non fu nemmeno questo la fine del politico Ariel  Sharon. La seconda vita politica di Ariel Sharon ebbe inizio con la nomina a ministro degli Esteri nel 1998 seguita l’anno dopo dall’assunzione della guida del suo partito.

Nel 2000 scatenava indirettamente la seconda Intifada e fu anche l’anno in cui passeggiò per scherno sulla spianata della moschea Al-Aqsa, a Gerusalemme. Molti lo interpretarono come un intollerabile gesto di sfida e infatti si riaccese violenza e odio tra le due parti.

Sharon divenne primo ministro. Il falco mostrò sin da subito la sua visione della politica e del rapporto con i palestinesi che, per lui, andavano trattati come terroristi compreso il peggiore di tutti, Yasser Arafat, il nemico di sempre.

Con la morte di Arafat invece cambiò anche  Sharon. il nuovo Abu Mazen, non aveva il carisma del precedente leader. Agli occhi di  Sharon quest’ultimo, il nuovo capo dei palestinesi, non appariva compromesso con il terrorismo dei kamikaze che si facevano esplodere nei mercati affollati di israeliani. Quindi nel pragmatismo di un generale si poteva tentare una pace: nel 2005 il premier israeliano e il leader dell’Anp firmarono una tregua mentre proseguiva, frattanto, l‘evacuazione dei coloni, caricati a forza sugli autobus. Una pulizia etnica al rovescio.

Sharon come ultimo atto della sua vita lasciò il suo partito di destra per fondarne uno nuovo più moderato e più centrista. Ma questa parte di storia non sarà lui a scriverla e rimarrà “to be continued”.

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