raqqaBattere l’Is è questione che non si risolve con i droni. Nemmeno, citando letteralmente l’ottimo inglese di Trump al fine di tradurne anche l’eleganza dei toni e del pensiero strategico, “bombardandoli a sangue”. L’ inferno, the “hell out of”,  non c’entra ma gli Americani mettono un po’ di Bibbia ovunque. L’intervento militare è in qualche misura inevitabile perché lo Stato per definizione si basa sul controllo armato del territorio. Un conflitto ha senso quindi se è concepito come misura per sottrarre allo Stato Islamico la sua dimensione territoriale. E’ sbagliato però illudersi che questo possa essere risolutivo soprattutto senza un intervento di terra a partire dalla ripresa di Raqqa e di Mosul con un esercito, stivali a terra.

Non è chiaro invece di che nazione debbano essere i soldati a riempire quegli stivali. L’esercito iracheno non esiste in pratica, perché è certamente dotato di risorse insufficienti per riguadagnare terreno. Inoltre essendo sciiti non verrebbero bene accolti dalle popolazioni  sunnite che sono sotto il califfato. Le forze siriane sono indebolite e impegnate su altri fronti, e comunque è lontanissima una soluzione del destino di al-Asad e famiglia, che da quelle parti è il primo imprescindibile problema. Difficile dunque contare sulle potenze regionali, che hanno interessi, prospettive e priorità diverse. La Russia non sembra averne convenienza.

I paesi occidentali non sono minimamente in grado di sostenere il costo politico interno, senza contare quello economico, di un’altra guerra e delle immagini dei propri ragazzi che rientrano a casa dentro bare avvolte in una bandiera.

L’intervento occidentale sarebbe una vera manna per la Jihad e produrrebbe un’ enorme quantità di risorse in termini di combattenti e aspiranti eroi della guerra santa a cui l’Is potrebbe attingere per anni e anni.

Resterebbe l’opzione di un intervento di una coalizione territoriale autorizzata dall’ONU formata dai paesi sunniti che si sentono minacciati dalla presenza dello Stato Islamico, ma francamente non ci sentiamo di scommettere sulla tempestività delle Nazioni Unite.

Il problema è che l’ISIS sta spostando il centro operativo in Libia, una zona franca perché instabile e contesa tra due governi e molti gruppi armati. “Bombardare l’inferno fuori dell’ISIS” in Iraq e in Siria potrebbe dunque essere tardivo oltre che inefficace.

E’ sempre valida la lezione che i vuoti si riempiono da soli in politica. Sempre. O ad opera di poteri legittimi (quasi mai) o ad opera di poteri illegali (quasi sempre). L’abbattimento del califfato non deve essere dimostrativo e fine a se stesso, ma deve essere accompagnato da un’opera di ricostruzione di istituzioni credibili e legittime (in questo caso intendiamo accettate dalle popolazioni) in grado di rimpiazzare gli equilibri attuali.

Lo scontro di Civiltà forse non c’entra. Questa è una guerra antica che ha sede da sempre dentro il Medio Oriente e nell’Islam.

Per sistemare la situazione occorrerebbe un governo forte, autorevole e senza scrupoli: occorrerebbe Saddam Hussein. Quel Saddam che abbiamo impiccato.

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